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Mi chiamo Cira Pastore e lavoro con La Grande Casa da circa tre anni. Svolgo la mia professione presso due servizi di tutela minori, la comunità educativa “la Mongolfiera” e l’educativa domiciliare sul territorio di Desio. Nell’ambito di quest’ultimo, da poco, collaboro anche per il progetto P.I.P.P.I, un programma di intervento per la prevenzione all’istituzionalizzazione a supporto delle famiglie con fragilità.

Ho pensato a lungo a un episodio rappresentativo del mio lavoro, che tenesse dentro la moltitudine di elementi sensoriali, difficili da definire e condividere ma che ogni giorno ne alimentano l’eros.

Mi viene in mente un fatto accaduto di recente. Mi ritrovo, come tutte le mattine dopo aver fatto la notte, ad accompagnare i bambini e i ragazzi a scuola. È il primo giorno per Maria Grazia, giunta in comunità la scorsa estate. La tengo per mano, quando la collaboratrice scolastica apre i cancelli e fa cenno di entrare. Maria Grazia è una bambina di sette anni, gracile, dolce, un po’ goffa e parecchio incazzata con le persone in maniera indistinta e democratica. Il suo cartone preferito è Ralf lo spacca tutto. Maria Grazia mi lascia la mano, mi abbraccia e si allontana insieme agli altri bambini. Fatica a proseguire con il passo che si scontra con quelli più frenetici e sicuri dei coetanei. Si ferma e si guarda attorno, mi sembra spaesata. Poi si gira, incontra il mio sguardo, mi sorride e abbassa la testa accennando una smorfia, come se non si aspettasse che qualcuno fosse lì a guardarla. Io ricambio il sorriso e penso a quante volte Maria Grazia si sentirà sopraffatta nell’incontrare il passo un po’ distratto di qualcuno che probabilmente non capirà che non sarà mai un “Felix l’aggiusta tutto” ma, che come Ralf, desidera solo essere amata. Penso a quante volte Maria Grazia cercherà uno sguardo amorevole e compassionevole nel mondo e quante volte si stupirà nello scoprire di non essere sola. Penso al senso del mio lavoro e a quanto, delle volte, questo farsi presenza diventi per i bambini e gli adulti che incontro, un elemento prezioso di svolta. Mi emoziono.

Episodi come questo mi ricordano che fare il tifo per “Ralf”, scoprirne la bellezza e condividerla con il mondo sia ciò che amo del mio lavoro. Sono sinceramente commossa dalle storie di chi si arrabatta nella complessità della vita.

Le tre parole chiave che, a parer mio, descrivono il lavoro di educatore sono:

Responsabilità: la responsabilità nei confronti dei bambini e degli adulti con cui lavoriamo si declina in una adeguata formazione (in costante aggiornamento); nella cura del linguaggio verbale e paraverbale che decidiamo di utilizzare; nella modalità con cui decidiamo di raccontare le storie agli attori coinvolti nel progetto; nella cura di noi stessi e delle relazioni con i colleghi; nel modo in cui decidiamo di affrontare i momenti di supervisione e di cosa sappiamo accogliere in termini di scoperte su noi stessi e sui significati dati alle cose. Responsabilità nel tenere sempre viva la rabbia per le ingiustizie subite sia dalla categoria professionale che dalle persone con cui lavoriamo, e operare per il cambiamento.

Empatia: una competenza necessaria, da nutrire con costanza

Apertura: apertura nello sguardo, il lasciarsi stravolgere dal mistero e dalle incognite della vita.

La sfida che trovo caratterizzi il mio lavoro è riuscire ogni giorno a lavorare anche con i più fragili tra i genitori, per garantire a ogni bambino il diritto di crescere sereno; ciò nel contesto di un welfare che, a oggi, non appare in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni delle categorie meno tutelate e che non garantisce equità e pari opportunità.

Le conseguenze di tale condizione, si riflettono sul lavoro educativo toccando diversi livelli. Il più impattante è lo scarso investimento di risorse economiche, che si traduce in contratti nazionali per nulla dignitosi e rispettosi per la professione, nel settore privato, e nel settore pubblico salari ugualmente non adeguati e scarse opportunità di collocamento.

Su un piano sociale e culturale, un elemento di criticità, a mio parere, è rappresentato dalla poca conoscenza e di conseguenza considerazione della professione educativa. Tale aspetto, spesso, entra in scena negli scambi con gli attori coinvolti nella rete e nell’effettiva incidenza sul progetto di vita dei ragazzi o delle famiglie, delle relazioni scritte e condivise con tribunali o servizi sociali.

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