Prima di parlare bisogna ascoltare
Butto giù un caffè veloce, mi infilo un maglione, i pantaloni della tuta li lascio. Il collegamento è tra pochi minuti. Luca mi aspetta dall’altra parte dello schermo. La classe è di nuovo in quarantena. Questo tira e molla è estenuante. A Luca mancano i compagni e per lui è destabilizzante continuare a fare periodi a casa e periodi a scuola.
Il video non lo aiuta. Immagino che si senta nudo, i nostri occhi puntati, per quanto con tutta la gentilezza possibile, sulla sua intimità. Sulla sua stanza, sulla sua casa, con la voce fuori campo della mamma che ogni tanto interviene per un suggerimento, un consiglio, un rimprovero.
È una donna sfuggente, non appare quasi mai in video. Sono l’educatore di Luca da ormai 3 anni e non sono mai risuscito a scambiare con lei più di un breve saluto fuori da scuola, le rare volte che l’ho incontrata.
La stanza di Luca sembra un piccolo deserto in cui aleggiano fantasmi che io non vedo mai, ma che lo turbano. Non ha mai amato raccontare, neanche a scuola, neanche quando siamo da soli, fuori dalla classe per qualche lavoro particolare o quando facciamo un giro nei corridoi per scaricare la tensione a metà mattina. Non racconta delle vacanze, dei suoi, neanche di sua sorella. Qualche accenno, vago, giusto per farci star tranquilli, a me e all’insegnante di sostegno.
Eppure non è un ragazzino silenzioso. Parla dei suoi fumetti, dei giochi che fa online con i compagni, dell’ultimo brano di quel cantante di cui non riesco mai a ricordare il nome.
Spesso però, all’improvviso, in questi racconti Luca si fa cupo. Stringe le labbra, distoglie lo sguardo, poi, come fosse una nuvola fosse appena passata, riprende a parlare.
Ride raccontandomi della maniera stupida in cui è morto nell’ultima partita. Soppeso l’idea di provare a farne una con lui, prima o poi, per cercare un ponte, un appiglio. Un terreno comune.
Ecco che appaiono tutti e 22 sul mio schermo, qualche telecamera spenta, la prof li richiama. In privato, in chat, gli do il buongiorno. L’insegnante chiede di spegnere i microfoni, inizia a spiegare. Luca ha la faccia tirata, stanca, vedo solo il viso e poco più, ma capisco che sta facendo dondolare le gambe.
Gli chiedo se va tutto bene. “Ho sonno”, mi risponde. La prof fa alcune domande, i soliti tre si prenotano per rispondere. “Dai che questa la sai” gli dico “Non ho voglia” mi risponde… poi fa un mezzo sorriso, tutto per me, e si prenota per rispondere, la prof lo sceglie.
Luca inizia a parlare… come sempre fa delle lunghe pause, si guarda in giro, ma la sa. La prof annuisce soddisfatta. Uno a zero per noi, Luca. Poi un urlo spezzato si sovrappone alla sua voce, la sentiamo tutti, distintamente, è la mamma di Luca e sta gridando contro qualcuno, in un’altra stanza. Una voce dura risponde e ancora e ancora. È la voce rabbiosa di un uomo. Non ho mai visto il padre di Luca, ma immagino sia lui. Non si distinguono le parole ma, quelle urla, il rumore di una porta che sbatte e il suono sordo di qualcosa che cade, mi arrivano come un pugno allo stomaco. Mi si gela il sangue. A giudicare dai volti degli altri non sono il solo.
Luca serra le labbra e i pugni, sul tavolo. Chiude gli occhi un momento, alza il cappuccio, spegne il microfono, poi la telecamera.
Respiro, prendo fiato, in quei secondi lunghissimi di silenzio. “Luca cosa succede?” gli scrivo in privato. Nessuna risposta. Altri lunghissimi secondi di silenzio poi la proff, imbarazzata, riprende il filo del discorso. “Luca si riconetterà, ragazzi”, dice, guardandosi le mani, come a vergognarsi di non sapere cos’altro dire.
Io preferisco tacere. Non saprei cosa dire, ma soprattutto non voglio ricucire quel velo strappato e resto a fissarlo. Ad ascoltarmi.
Ad ascoltare il battito del mio cuore che ha accelerato, il respiro rotto e soprattutto i miei pensieri, che mi travolgono come una valanga: Luca che è lì, nel deserto azzurro pallido della sua camera, le urla, la paura che ho provato io a chilometri di distanza, i suoi pugni stretti.
Non si è voltato quando ha sentito urlare, ha solo chiuso gli occhi e stretto i pugni.
Come posso non essermene mai accorto, mi chiedono quei pensieri, quando la valanga si placa.
Luca per molto tempo dopo quella mattina in DAD ha fatto finta di nulla e Giorgio gli ha lasciato tempo e spazio per maturare la decisione di parlarne con lui. Gliene ha parlato qualche settimana dopo. Un racconto lungo anni. Qualche giorno dopo la mamma ha chiesto un colloquio, Giorgio l’hanno ascoltata e l’hanno messa in contatto con un centro antiviolenza, rassicurandola che loro ci sarebbero stati, per lei, per Luca e per sua sorella. Sono passati molti altri mesi, la scuola è finita ed è ricominciata.
A novembre Luca, sua madre e sua sorella si sono trasferiti. I grandi cambiamenti hanno bisogno di tempo, il passo più difficile è sempre intraprendere una nuova strada.