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L’officina di Beppe era uno dei luoghi storici del quartiere, ci passavo davanti tutte le mattine mentre andavo a scuola… o meglio, mentre facevo finta di andarci.

Prima di aprire ogni tanto ci fumavamo una sigaretta e parlavamo di motori, poi ci salutavamo solo con un cenno. Lui è un tipo tosto, mai un sorriso, e anche io non è che amo troppo chiacchierare. A parte di motori, s’intende. L’odore di grasso, il buio dell’officina, il rumore. Mi è sempre sembrato un posto dove aggiustare le cose magari non è facile, ma il più delle volte possibile; un posto dove poter passare tranquillamente la giornata. Non come a scuola. E sicuramente non come a casa. Ci passavo davanti e mi dicevo, chissà, magari quando mi libero di quella cazzo di scuola.

Poi un bel giorno tutto è andato a rotoli. Non che prima andasse a meraviglia, i miei si sono sempre scannati, ma è arrivato il giorno che hanno proprio esagerato e all’uscita da scuola, perché una volta tanto c’ero andato, ci ho trovato i carabinieri. Ma invece di portarmi in caserma e farmi una delle paternali a scelta nel solito catalogo, mi hanno portato in comunità. “In questo momento a casa non ci puoi tornare”, mi ha spiegato l’assistente sociale. Non che non avessi capito, non che fosse la prima volta che se ne parlava. Ma adesso mi toccava fare la valigia. Lasciare casa, lasciare il quartiere, gli amici, quei pochi che ho. Ma non voglio raccontarvi della comunità. Gente per bene, attenta, sorridente. Forse troppo. Ma a me mancavano le strade con le macchine parcheggiate sui marciapiede e il kebabbaro con la foto sbiadita di Istanbul. Mi mancava casa. Mia madre se n’era andata a vivere da un’altra parte, ma mio padre era ancora lì e mio fratello anche. Così appena compiuti diciotto anni ho rifatto le valigie, non ho ringraziato, anche se forse avrei voluto, e sono tornato al mittente. Ma l’assistente ha voluto affibbiarmi una specie di guardia del corpo. Un tizio che un paio di volte a settimana mi veniva a prendere sotto casa e mi portava in giro, a volte in macchina, in lunghi viaggi silenziosi, altri a piedi per le strade del quartiere. Uno a posto, non fraintendetemi. Meno sorridente dei suoi colleghi, là in comunità, e questo mi metteva a mio agio. Anche con lui si parlava solo di motori, e proprio non ci capiva un cazzo, ma mi stava ad ascoltare e non era poi male spiegare qualcosa a qualcuno per una volta, invece che star sempre lì ad incassare le spiegazioni degli altri. Ogni tanto ci fermavamo anche a fumare con Beppe e a parlare con lui. La prima volta che ci siamo visti, dopo il mio ritorno, quasi mi ha sorriso e mi dato una pacca imbarazzata su una spalla che a momenti me la smonta. Avrà più di sessant’anni, Beppe, ma ha mani grosse e forti, sempre nere, come pale da carbone.

Col tempo è diventata una tappa fissa delle nostre passeggiate silenziose. Non ci andavo più la mattina perché a scuola non ci sono tornato, ma con Davide (il tizio) ci passavamo sempre. Poi un pomeriggio Beppe mi ha detto: “passa domani. Invece di parlare e basta, vediamo cosa sai fare”. Non ci sono andato, a fare cosa? Sono passato per la sigaretta come al solito e mi ha detto di nuovo “passa domattina”. Gente di poche parole lui e quel Davide, ma si erano presi la fissa che dovessi passare di lì una mattina, così ci sono andato.

Mi ha ma messo in mano un attrezzo, poi un altro, poi roba da spostare, poi la ramazza per pulire. “Oh Beppe capiamoci, che io mica lavoro gratis”. “No, infatti. Tu impari gratis”.

L’officina era come la immaginavo, un luogo dove se trovavi il posto giusto ad ogni pezzo, facevi cantare il motore. Più le mie mani diventavano nere come quelle di Beppe, più era facile capire dove metterli. Fuori era il solito casino, ma avevo sempre quei lunghi giri in auto con Davide.

Un pomeriggio Beppe ha tirato fuori la sua voce di cartavetrata, un vero evento: “Mi ha detto Davide che hai preso la patente… se riesci a farla camminare è tua”. Con la testa ha indicato il cortile sul retro, mi sono pulito le mani nello straccio e solo uscito. Era un vero rottame, ma non era una macchina, era LA macchina e aspettava solo che la rimettessi in pista. Con calma, pezzo dopo pezzo. Era il mio turno, insomma. Finalmente.

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