Non sapete quante volte mi hanno chiesto “perché sei venuto in Italia?”.
A volte è una domanda gentile, non sempre aggiungono che devo tornarmene al mio paese, ma io rispondo a tutti nello stesso modo “Avevo sete. Una sete terribile.”
Qui vi sembra normale. Ti devi lavare, apri l’acqua. Devi cucinare, apri l’acqua. Devi bere, apri l’acqua.
Io vengo dal Sud Sudan. Lì avevo la mia casa, la mia famiglia, le mie bestie. Facevo il pastore e se vi sembra che sia partito per questo, perché non mi piaceva, perché ero povero, perché volevo “un futuro migliore”, come dite qui, vi sbagliate. Sono partito per colpa dell’acqua.
Qui all’acqua non si pensa, ce n’è tanta, si spreca. Al mio paese, invece no. I fiumi seccano, le bestie muoiono e le persone con loro. Di fame, di dissenteria, ammazzate. Perché al mio paese per l’acqua si fa la guerra, per la terra si fa la guerra. Al mio paese si fa la guerra per ogni cosa. Per questo sono partito. O meglio, sono scappato.
Ho chiesto a uno dei ragazzi qui, quelli che ci danno una mano con i documenti, che ci ospitano, di aiutarmi a fare i conti, per capire quanto è distante Giuba da Milano, da questa stanza. Mi ha detto che google maps non lo sa. Io non so quasi leggere, ma lo so invece. Tanta. Tantissima. Dice che ci vogliono 11 ore in aereo. Io l’ho fatta quasi tutta a piedi.
Ma questa storia ve l’hanno raccontata mille volte, vero? Il deserto, le minacce, la Libia, il mare, la paura.
Io il mare non l’avevo mai visto in vita mia e spero di non vederlo mai più. Per questo non è male il posto dove sto: qui almeno il mare è lontano. Anche casa mia, anche la guerra e il colera. E se questi pensieri mi svegliano, la notte e sento quella sete terribile, mi alzo in silenzio, per non svegliare i miei compagni, vado in cucina e apro il rubinetto.
