Mi chiamo Carlo e sono stato assunto dalla cooperativa La Grande Casa tre anni fa. Attualmente lavoro come educatore nei servizi di Educativa scolastica e domiciliare.
Se ripenso a una situazione particolare che ho vissuto, mi viene in mente Paolo, un ragazzo che incontravo quattro ore a settimana in Educativa domiciliare. Racconterei, in particolare, quello che è successo con lui durante un pomeriggio:
“Con Paolo non si può mai sapere. O meglio, c’è la certezza che ogni nostro incontro non sarà uguale a nessuno dei precedenti. Quando apro la porta dell’appartamento in cui vive, vedo un ragazzo di 14 anni che sfreccia avanti e indietro tra il salotto e la cameretta. Oggi è di buon umore. Dopo un rapido sorriso per salutarmi, mi dice che in auto dobbiamo assolutamente sentire la nuova canzone che uno dei suoi rapper preferiti ha fatto uscire su internet. Lo saluto e gli chiedo come sta, ma lui è troppo impegnato a cercare i calzini e le scarpe. Come sempre, decidiamo in pochi attimi cosa fare nelle successive due ore. “Devo farti ascoltare una nuova canzone!” – “Ok, ma cosa facciamo?” – “Non importa, basta che andiamo in macchina che devo mettere questa canzone”.
Passano pochi istanti e sto guidando verso un parco a circa mezz’ora di viaggio dalla casa di Paolo. Ho deciso io la destinazione. Sono il suo educatore da pochi mesi e in questo tempo ho imparato che gli spazi verdi lo fanno stare bene e fanno stare bene anche me quando sto con lui. A Paolo, tutto sommato, non sembra interessare veramente dove stiamo andando, è concentrato sul qui e ora e ha già impostato il volume della musica sul livello 48. Nelle ultime settimane abbiamo faticosamente concordato che oltre il 48 non si può andare. Paolo, d’altro canto, ci ha messo pochissimo tempo per farmi capire che non si può andare nemmeno sotto. Per il momento mi va bene, un po’ perché anche secondo me la musica va ascoltata ad alto volume, un po’ perché il fatto che Paolo sia sceso a un compromesso e che continui a rispettarlo è un traguardo importante.
Fa molta fatica a stare in relazione: il nostro dialogo è la somma di tante piccole conversazioni frammentate e diverse che si susseguono rapidamente, e che vengono troncate da Paolo appena diventano poco più lunghe o impegnative del solito. Usa soprattutto le canzoni per comunicare con me. E infatti solo in pochissime occasioni mi ha lasciato la possibilità di scegliere cosa ascoltare. Ogni tanto gli dico come battuta che il nostro obiettivo è riuscire a sentire per intero una canzone scelta da me.
Oggi Paolo sceglie solo canzoni con cui ci possiamo divertire. Nell’impianto stereo della macchina non risuona nessuna canzone che lo spinga a guardare in silenzio fuori dal finestrino, come accade altre volte. Oggi è una bella giornata.
Arrivati a destinazione scendiamo dalla macchina e prendiamo il primo sentiero che ci troviamo davanti. Mentre camminiamo senza meta Paolo mi racconta con il suo modo iperbolico delle risse in cui è stato coinvolto, di quello che ha fatto negli ultimi giorni con il suo migliore amico e delle ingiustizie vissute a scuola. Camminiamo per più di mezz’ora. Appena provo a restare su un argomento più di un minuto lui sbuffa e cambia discorso. Si innervosisce perché a un certo punto gli chiedo con più insistenza del solito di riflettere su un conflitto che aveva avuto in quella settimana. Iniziamo per qualche minuto a camminare vicini ma in silenzio. Lui mi precede di qualche passo ma mi aspetta per capire come continuare sul sentiero. A un certo punto un rumore improvviso spaventa tutti e due e tiriamo fuori un sincero urlo all’unisono. Capiamo subito che è colpa di qualcosa di simile a un fagiano che, sentiti i nostri passi, ha sbattuto forte le ali e si è allontanato. Ridiamo di gusto insieme, prendendoci in giro a vicenda su quanto siamo stati ridicoli a spaventarci in quel modo.
Riprendiamo il sentiero verso la macchina e torniamo a casa ascoltando altra musica scelta da lui. Prima di risalire a casa, Paolo mi fa vedere la foto di suo fratello e mi dice che gli piacerebbe farmelo conoscere. Suo fratello è in comunità da un anno e Paolo non lo nomina mai. È la prima volta, infatti, che mi parla spontaneamente di lui.
Passano i mesi. Ogni incontro è un punto di domanda e, guardato da vicino, mi è difficile dire se sia stato utile a Paolo o no. Ma se allargo lo sguardo a tutto il nostro percorso, riesco a vedere il cammino fatto insieme, e un po’ mi commuovo. Se all’inizio Paolo sembrava tollerare appena la mia presenza, negli ultimi incontri sembrava quasi la aspettasse.
Ma fuori, purtroppo, le cose non procedono altrettanto “in discesa”: per motivi che riesco a comprendere solo in parte, la vita a casa, a scuola, con gli amici, diventa per lui sempre meno sostenibile; gli è difficile affrontare la quotidianità, vivere le relazioni, regolare emozioni, pensieri e comportamenti. Dopo diversi accessi al Pronto Soccorso e un ricovero in Neuropsichiatria, viene inserito in una comunità e il mio lavoro con lui si conclude.
Ora lo immagino a continuare faticosamente il suo percorso e spero che il pezzetto di strada fatto insieme gli abbia lasciato qualcosa di utile per il futuro. A me, e al mio lavoro di educatore, lo ha lasciato di sicuro.”
Per descrivere il mio lavoro scelgo queste tre parole: curiosità, solidarietà, diritto.
Curiosità perché credo che l’educatore, per poter fare un buon lavoro, debba avere la voglia, l’energia e il coraggio di avvicinarsi alle vite degli altri. Per me è sempre stato fondamentale avere il desiderio di conoscere, affrontando la paura di trovarmi su terreni scomodi o sconosciuti. Credo anche che la persona verso cui è indirizzato il mio intervento possa iniziare a relazionarsi con me solo se sente il mio vero e genuino interesse verso di lei.
La seconda parola che ho scelto è solidarietà. Alla base della mia decisione di svolgere questa professione c’è un forte desiderio di dirigere i miei sforzi lavorativi verso situazioni di vita caratterizzate da un momento di difficoltà. Mi piace pensare che il mio lavoro contribuisca direttamente, anche in piccola parte, al benessere della comunità cui appartengo.
Collegata alla parola solidarietà ho scelto la parola diritto. Sono convinto che una società giusta e sana consenta a tutti i cittadini di avere le stesse possibilità. Ognuno ha diritto a ricevere un supporto professionale e pubblico. Credo che gli educatori svolgano una funzione decisiva, aiutando a diminuire la distanza tra chi ha tutte le opportunità e chi ne ha meno.
Il lato che più apprezzo del mio lavoro è accompagnare alcune persone per un pezzo della loro vita e condividere le fatiche e i traguardi che segnano il loro (e il mio) percorso. Mi piace immergermi nelle loro storie e poter crescere insieme professionalmente e personalmente.
La difficoltà principale per me è il poco investimento politico ed economico che viene fatto sul lavoro educativo. È frustrante operare in un contesto politico poco lungimirante e avaro di risorse.
Un educatore, secondo me, dovrebbe scegliere di lavorare a La Grande Casa perché è una cooperativa sociale seria che, nella mia esperienza, ha dimostrato di porre come prerequisito la sostenibilità economica del lavoro educativo. Inoltre, ho sempre ritenuto preziosa la qualità di quest’organizzazione, a partire dal lavoro in équipe e dalla possibilità di avere garantiti incontri di supervisione a cadenza regolare. In questi anni sento di aver imparato molto da colleghi preparati professionalmente e che affrontano il lavoro con serietà.