Sanja esce dall’ufficio postale con un grande sorriso che le si allarga sul viso magro. Ha in mano un bancomat e me lo mostra come un trofeo. In effetti lo è. Ha quasi quarant’anni e questa è la prima volta in vita sua che ha un conto corrente. Eppure da quando è arrivata in Italia ha sempre lavorato, a volte in nero altre in regola, piccoli lavori precari tra una gravidanza e l’altra. Sanja è arrivata da noi in un pomeriggio piovoso d’inverno, lo sguardo distante e sfuggente lei, basso e impacciato, quasi a scusarsi del disturbo, quello delle sue due figlie adolescenti. Solo Anton, il più piccolo, ci sorrideva curioso e timido.
Mentre i suoi figli lentamente e con fatica provavano a tornare alla normalità, alternando momenti sereni alla rabbia per la vita che avevano perso, interrotta da un padre violento, Sanja continuava ad attraversare le giornate con lo stesso sguardo spento e lontano, che si animava solo quando per strada sentiva un rumore o una voce, che riattivava in lei l’istinto a proteggersi. “Non riesco neanche a prendere l’autobus”, ha detto una volta con amarezza, “vedo la sua faccia ovunque, sento la sua voce sempre”.
Un giorno, dopo molti tentativi, è arrivato quel contratto di lavoro tanto sperato e per cui tanto avevamo faticato. E Sanja è tornata da quell’altrove doloroso. Felice di alzarsi presto e rincasare stanca, di poter provvedere alla sua famiglia e decidere liberamente per sé e per i suoi figli. È tornata e finalmente è riuscita a raccontare quanto difficile e doloroso era stato arrivare fin lì. La paura, la disperazione, il senso di colpa. Mi abbraccia nel piazzale di un piccolo ufficio postale di provincia e all’orecchio mi dice “Grazie”. “La parte più difficile l’hai fatta e la stai facendo tu, Sanja, ma noi siamo qui”.